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Le competenze, queste sconosciute

Le imprese sanno tutto dei ruoli lavorativi nella loro organizzazione ma la conoscenza delle competenze personali dei dipendenti è scarsa o del tutto assente.

Partendo dall’assunto che ogni lavoratore dispone di proprie competenze che non fanno parte del bagaglio professionale, il paradosso è che in ogni realtà aziendale ci sono capacità e doti sottoutilizzate che conferiscono alle persone un enorme potenziale, sconosciuto all’interno della organizzazione stessa.

Avere un quadro chiaro delle competenze dei propri dipendenti, con l’imperativo di metterle in luce in modo efficace per rimanere competitivi sui mercati, è diventato un obiettivo imprescindibile per le imprese perché la loro conoscenza e gestione serve ai responsabili per identificare e valorizzare le professionalità di coloro che le possiedono, tra l’altro sicuramente difficili da reperire sul mercato del lavoro.

Attribuire valore alle competenze extra-professionali è un ottimo investimento per il futuro delle imprese e dei dipendenti i quali, in un mercato in continuo cambiamento, devono essere coinvolti nei piani organizzativi e favoriti nella mobilità interna, due fattori chiave che possono fare la differenza tra il successo e l’insuccesso della organizzazione.

Nei fatti non tutte le competenze sono facili da individuare e da misurare
Alcune, come le doti di leadership, la capacità di analisi e di risoluzione dei problemi, la creatività, la resistenza allo stress ed il sapere gestire l’ansia sono difficili da quantificare.
Inoltre possono cambiare nel tempo perché nel corso della loro carriera i dipendenti possono acquisirne di nuove o perdere quelle esistenti.
E poi queste possono anche non essere evidenti, ad esempio quando i collaboratori non sono incoraggiati a manifestarle o non sono sicuri di essere apprezzati.
Il management si trova dunque protagonista della sfida di strutturare un processo di identificazione, acquisizione e gestione delle competenze che consenta di massimizzare il potenziale del capitale umano.

L’argomento è da tempo oggetto di dibattito perché le analisi tradizionali si concentrano praticamente sempre e solo su quelle associate ad un particolare ruolo operativo o mansione invece che sulle più ampie conoscenze ed esperienze possedute dall’individuo.
Focalizzare l’attenzione ed i piani di sviluppo sulle persone piuttosto che sul curriculum professionale consente per certo una identificazione più raffinata delle competenze presenti nella organizzazione, soprattutto quelle extra-lavorative.
Il fattore positivo è che ogni lavoratore, non importa in quale ambito o incarico, può possederne di preziose, la cui comprensione è essenziale per migliorare le performance aziendali.

È quindi necessario cambiare metodo
Tradizionalmente le imprese guardano alla propria forza lavoro attraverso il filtro dei titoli di studio, delle qualifiche professionali e delle esperienze lavorative ad esse connesse, spesso ritagliando percorsi di sviluppo delle persone attraverso ruoli prestabiliti su una traiettoria di carriera pianificata che si sviluppa negli anni.
In effetti è raro che il management approfondisca altri elementi e, come conseguenza, si perdono un’ampia gamma di conoscenze che i dipendenti portano con sé nel momento in cui lasciano l’azienda, da quelle tecniche, linguistiche ed organizzative alle capacità creative e di leadership, fino alle esperienze acquisite e sviluppate in ambito privato (hobbies, sport, cultura, volontariato, etc.).
Inoltre, prevedere future esigenze di ampliamento del personale senza una adeguata conoscenza delle competenze già in organico è come cercare di leggere al buio.
L’obiettivo deve invece essere chiaro: la loro efficace e completa conoscenza fornisce al management i riferimenti per prendere decisioni migliori, anche riguardo alle persone, perché un focus attento e positivo su ogni lavoratore può migliorarne il coinvolgimento ed aumentarne la fidelizzazione.

Ancora di più oggi
Ogni impresa ha lavoratori che lasciano l’azienda perché vedono poche o nulle opportunità di avanzamento di carriera e questo fenomeno si sta ampliando sempre di più, indotto e condizionato anche dal cambiamento generazionale dei lavoratori.
I Millennials e la Generazione Z hanno infatti esigenze e aspettative diverse rispetto alle generazioni che li hanno preceduti: un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata, interessanti opportunità di sviluppo ed un coinvolgimento significativo nel lavoro che svolgono.

Le imprese devono dunque fare proprie queste richieste per attirare e soprattutto trattenere i talenti perché, se non propongono soluzioni che incontrano le attese dei propri collaboratori, il rischio è di perderli a causa delle scarse prospettive offerte.
Per rimanere competitivi è necessaria quindi una impostazione più flessibile, tale da permettere di riconoscere, sviluppare e consolidare il potenziale dei dipendenti.
La fidelizzazione e le opportunità di carriera, anche trasversali rispetto alla qualifica professionale originaria, stimolano l’iniziativa e portano ad un più proficuo coinvolgimento dei lavoratori di talento.

Tra l’altro è proprio su di essi che da qualche anno le imprese stanno concentrando la loro attenzione, in particolare sulla difficoltà di attrarli e molte cominciano a chiedersi come valorizzare e supportare al meglio quelli già presenti in azienda.

La risposta è in realtà molto semplice: serve una migliore comprensione, sviluppo e pianificazione delle risorse umane di cui si dispone e delle loro competenze, imponendosi di fare serie valutazioni dei dipendenti e di rivederle regolarmente, aggiornandole man mano che questi crescono e si sviluppano.
E serve tanta, tanta formazione, per tutti e a tutti i livelli.

Per le imprese è una sfida epocale perché il processo è lungo, continuo e complesso ma è indispensabile per diventare attori primari sul palcoscenico del cambiamento e non fare le semplici comparse di un copione scritto da altri.
Altrimenti l’alternativa è una sola: essere implacabilmente tagliati fuori dal prossimo film.

PS.
Nell’articolo non compaiono parole come salario, retribuzione, paga, stipendio o affini. Proprio perché il mondo del lavoro è cambiato, questi non sono più per i lavoratori i primi elementi discriminanti nella scelta o nel mantenimento del posto di lavoro ma sono diventati un valore aggiunto quasi secondario, necessario ma non indispensabile nella programmazione della propria vita lavorativa.